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PROVA D'ORCHESTRA Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 marzo 1979
 
di Federico Fellini, con Balduin Baas, Elisabeth Labi, Clara Colosimo, Rolando Baracchi (Italia, 1979)
 

Il filmetto di Fellini, come lo chiama lui perché l'ha fatto per l a televisione, perché dura soltanto un'ora e dieci e perché loha concepito a cavallo fra due film grossi, è molto semplice. Un gruppo di orchestrali è rinchiuso in un auditorium per provare un brano sinfonico. Una sala chiusa alla luce ed ai suoni del mondo esteriore, un oratorio con alle pareti dei resti del passato, cosi da farci comprendere che assisteremo ad un discorso che si dilata nel tempo. Gli orchestrali di Prova d'orchestra sono scampoli di umanità isolati in provetta, un po' come quelli celebri del capolavoro di Bunuel, L'angelo sterminatore. La colonna musicale è l'ultima scritta da Nino Rota.

Fellini ce li dipinge con la sua vena impareggiabile di caricaturista: ogni strumentista, con le proprie frustrazioni, megalomanie, patetismi, rivendica l'importanza del proprio strumento, del proprio ruolo, nel concerto della società. Poi arriva il direttore. Se i musicisti, anche perché argutamente sottolinea ti nella loro cadenza dialettale, fanno pensare all'Italia, il direttore è tedesco, e si esprime in un italiano dalle cadenze teutoniche, a metà tra il buffo e l'inquietante. Il direttore non ce la fa più: sono passati i tempi in cui Toscanini bacchettava sulle dita dei musicisti più indisciplinati. Qui ormai ognuno si fa i cavoli suoi. Non c'è più l'orchestra, non c'è più quell'armonia che permette di raggiungere una costruzione.

Seconda parte del film: la contestazione, la rivolta, il caos, l'apocalisse. «Sono un sergente che non può distribuire calci in culo», ci dice il direttore. E guardate quel che succede, rincara Fellini. Gli orchestrali si rivoltano, si azzuffano in modo sempre più indecoroso, si stravaccano a gozzovigliare sotto gli strumenti. Uno, tira fuori persino la pistola che si portava allacciata alla caviglia, e si mette a sparare attorno a sé. Nel pieno del caos, l'apocalisse. Fellini ama il fantastico, che gli permette di concludere i propri discorsi, o di raggiungere se tutto va per il meglio, la poesia. Qui prende la forma di un'enorme boccia, una di quelle sfere usate per le demolizioni: sfonda una parete dell'oratorio, appare come un Ufo apocalittico, semina terrore e sconforto. E permette finalmente al direttore di ristabilire l'ordine, riprendere in mano l'orchestra, ricominciare il concerto.

A questo punto il discorso di Fellini è chiarissimo: senza l'uomo forte è il caos. Guardate l'Italia di oggi, guardate il mondo attorno a noi, guardate cosa succede ad essere permissivi, a rispettare le individualità. Un discorso di una trasparenza tale da sfiorare l'ambiguità, poichè per il regista armonia diventa sinonimo di autorità, bene di ordine. E male, di disordine, di anarchia. Sennonché il film ha un ultimissimo colpo di coda. Ristabilito l'ordine, il direttore riprende la sinfonia, ricomincia a sferzare verbalmente gli orchestrali e, mentre le immagini vanno in dissolvenza, lo si sente urlare istericamente, in tedesco. All'ultimo istante, Fellini ci dice che un eccesso di autoritarismo conduce a delle degenerazioni che ben dovremmo ricordare.

Ed a questo punto è facile dire che Fellini ha voluto volgere uno sguardo sereno alla storia: ci vuole democrazia, e ci vuole partecipazione. La difficoltà sta nel trovare il giusto equilibrio.

A noi, il film di Fellini sembra sia perfetto nella sua prima parte, quando enuncia il problema, espone con arte ineguagliabile gli scampoli del concerto umano. Poi però il suo discorso si fa un tantino pesante, il simbolo evidente, la metafora trasparente. Da questa pesantezza nell'uso di sottintesi scaturisce, un risultato che, forse, l'autore non cercava. E cioè, che Prova d'orchestra significa semplicemente che occorre, e presto, l'uomo forte. Fellini è un artista, e non un politico. E probabilmente ha voluto fare un discorso più vago, metterci di fronte allo specchio ed anche al mistero del futuro, confrontato con l'esperienza del passato. Se questa equidistanza nei significati non sempre si mantiene è perché al regista la seconda parte del film è sfuggita un poco dalle mani.

Nulla succede a caso in un film, nulla che non dipenda da un intervento espressivo. La contestazione giunge troppo improvvisa, le reazioni degli orchestrali diventano troppo prevedibili, il discorso del direttore troppo esplicativo, i simboli (l'arpa sepolta dalle macerie) troppo scoperti. Sono cose che si pagano, errori minimi che, in un meccanismo perfetto come quello di un film di quel livello espressivo, incidono fortemente sull'equilibrio dei significati.

Fellini è un mago dell’invenzione cinematografica, non lo scopriamo ora. Ma è talvolta troppo istintivo, troppo generoso ed egocentrico per uscire allo scoperto. Meglio, per lui, nascondersi dietro al fantastico ed alla invenzione decorativa: Fellini odia gli orchestrali di Prova d'orchestra così come odiava l'aridità esistenziale di Casanova. Ma nel ribrezzo per la maschera del libertino nasceva anche la pietà, la comprensione per la solitudine, l'amore -odio per l'uomo. Tutto quanto non esiste qui: perso fra i fili troppo scoperti di una enunciazione politica e polemica.

 

***

Il “filmetto” di Fellini conferma, com'è ovvio, il genio dell'autore. Soprattutto nella prima parte l'esposizione è grandissima. Quei musicisti, individualisti fino all'esasperazione, ognuno preoccupato essenzialmente di vantare le prerogative del proprio strumento, chi meschino, chi patetico, chi arrogante, dominato sempre di più dalle esigenze sindacali piuttosto che da quelle dell'armonia, quei musicisti rappresentano evidentemente la società di oggi Mai Fellini era stato così trasparente nel proprio discorso simbolico.

Se la sua grande maestria di ritrattista lo serve perfettamente, in questo senso, quando si tratta di enunciare il problema (la presentazione dei musicisti) meno bene vanno le cose quando ci mostra le conseguenze. La trasparenza della seconda parte (la contestazione, l'impotenza e la nostalgia del direttore, il caos, l'apocalisse, il ritorno all'ordine) nuoce al discorso. Se ne viene fuori il ritratto di un Fellini che rimpiange l'uomo-forte, che cerca di farci credere che necessariamente ordine significhi bene, e disordine, anarchia, sinonimo di degenerazione, tutto questo non succede soltanto perché Fellini ha (forse) delle idee discutibili in materia. Ma perché, espressivamente, la seconda parte del suo film non è perfettamente padroneggiata. E la confusione di un discorso ideologico in un film è sempre la conseguenza di una confusione a livello strutturale.

Certo alla fine c'è il famoso «cappello», il direttore che si mette a parlare in tedesco, Fellini che ci dice di stare attenti, l'uomo forte può diventare anche Hitler. Ma non è un po' tardi, nell’economia del film?

Il significato dell’opera, mi sembra, quello che rimane impresso nella memoria è ormai quello che precede: “Sono un caporale — come dice il direttore — che non può più dare calci in culo”.

 


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